Quando cerchiamo di capire una civiltà, una delle prime
testimonianze sono i resti delle attività svolte dagli uomini e dalle donne in
un determinato luogo. Una delle prime azioni, a volte molto efficaci, è la
ricognizione archeologica sul terreno. Si tratta di operare una ispezione
diretta (o autoptica) di porzioni di territorio ben definite, fatta in modo da
garantire una copertura uniforme e controllata di tutte le zone. Si percorre a
piedi una zona guardando il terreno ma facendo attenzione anche al costruito (i
così detti alzati), come questo suolo è stato impiegato nelle epoche precedenti.
Ci si rende subito conto come i resti di attività svolte dall’uomo del passato
ci circondino ovunque, siano essere recenti che, come spesso succede in Terra
Santa, o anche antichissime. Un esempio è il deserto. Anni or sono partecipai
ad una missione archeologico-ricognitiva organizzata dal prof. Emmanuel Anati
nell’area di Har Karkom nel cuore del deserto del sud di Israele. Fu
un’esperienza unica perché il prof. Anati ci raccordò subito una certa fiducia
invitandoci a considerare l’attività umana dell’uomo del deserto come un
aspetto cruciale per comprendere il contesto di un reperto che abitulmente si
trova in superficie. Quindi attorno a un reperto (un oggetto antico fatto a
mano o modellato dalla natura) vi è la matrice (cioè tutto il resto del
materiale che lo circonda) e la sua posizione sono in stretto contatto tra di
loro. Ricordo come vicino ad una incisione rupestre vidi anche spuntare un
fiore straordinario in mezzo a pietre roventi. È un segno che il deserto fu
anche in alcune fasi un ambiente fertile e ricco di piante. Abbiamo scoperto
quanto significativi siano ancora questi “testimoni” presenti sul terreno (e
purtroppo ogni tanto assistiamo a furti dei viaggiatori di passaggio che
pensano di portarsi a casa un souvenir!) che mostrano le tracce
dell’antropizzazione e dell’attività umana fatta di gente che raccolse, lavorò,
si diede alla caccia e alla pastorizia, innalzò all’Altissimo i pensieri del
cuore e dell’intelligenza. Possiamo dire che è rimasto molto perché il deserto
conserva molto! Non solo la terra nella sua profondità ci conserva dei reperti
ma anche la superficie, e oggi ci restituisce dei materiali sui quali si
possono studiare l’utilizzo operato dall’uomo. Nel nostro caso, e cioè di
materiali prevalentemente di pietra, possiamo capirne l’acquisizione,
l’utilizzazione, la manifattura e dopo il periodo più o meno lungo di utilizzo,
lo scarto. Questo aspetto lo possiamo rilevare anche con gli altri materiali
quali la ceramica, il ferro, il rame-bronzo e gli altri materiali più preziosi.
Ci si chiede cosa rimarrà della nostra cultura odierna e il rimasto sul terreno
che troveranno i nostri posteri tra qualche millennio. Forse dei tablet? Delle
carcasse di smartphone, uno schermo del pc? Un altro esempio mirabile di
conservazione in ambiente arido sono le sepolture, come quelle dei faraoni ad
esempio. Ci è giunta, pur già saccheggiata in antico, la tomba del faraone
Tutankhamon. Si è capito come il corredo tombale non era originariamente tutto
destinato al faraone. Una parte era stata disposta per altri membri della
famiglia, e poi era stata utilizzata in gran fretta quando il giovane re morì
improvvisamente. Di lui si crede una morte violenta. C’erano anche oggetti
commoventi, come una sedia che il re aveva usato da bambino, e un semplice
bastoncino di giunco con la scritta: «un giunco che Sua Maestà ha tagliato con
le sue mani». Le condizioni del deserto hanno permesso una ottima
conservazione. Ci è rimasto molto considerando i millenni che sono passati!