Il biblista
Garuti: «Nelle immagini della Scrittura il mistero che unisce Cielo e terra»
La Geenna,
«valle sporca nei pressi di Gerusalemme nota per le fornaci dove il fuoco non
si arrestava mai». Lo stagno di zolfo e fuoco di cui narra l’Apocalisse in cui
saranno gettati Satana e i suoi seguaci. I corpi astrali, perfetti, a cui san
Paolo paragona i corpi risuscitati. Sono diverse – anche se non numerosissime –
le immagini che la Bibbia usa per parlare delle realtà ultraterrene. «Per molti
testi dell’Antico Testamento, soprattutto quelli legati alla tradizione del
tempio di Gerusalemme, non era prevista una sopravvivenza oltre la morte.
L’unico riferimento era allo Sheol, un regno delle ombre, dove si vive di
desiderio, mentre era chiara la proibizione di evocare gli spiriti», spiega
padre Paolo Garuti, biblista e docente alla Pontificia Università San Tommaso
d’Aquino di Roma.
«Solo negli ultimi decenni prima di Cristo – rileva lo studioso – si parla di Risurrezione, ma solo come premio per i giusti che vivranno in un mondo terreno, molto concreto, secondo una visione di tipo farisaico che emerge in testi come la Sapienza e il libro dei Maccabei». É con il cristianesimo che «inizia a diversificarsi il mondo oltre la morte e nel Nuovo Testamento si parla anche di un castigo per gli empi». Ecco che al fuoco delle Geenna si affiancano «la strana sintesi citata nell’Apocalisse di un Regno terreno dei giusti, quello dei mille anni» e le metafore sulla condizione dei morti prima della risurrezione. Quella del corpo è una questione fondamentale che viene evidenziata da san Paolo, specialmente quando entra in contatto con la mentalità greca.
«Oggi, nella cultura mediterranea e occidentale – osserva padre Garuti – convivono due correnti di pensiero: una indoeuropea, platonica e agostiniana, che intendendo il corpo come una prigione che resiste all’idea della risurrezione; e una semitica, legata al mondo biblico, aristotelica e scolastica, per la quale l’essere umano non può esistere senza il corpo. Tale corrente fa dunque fatica a spiegare cosa succede ai morti prima della risurrezione». Sebbene queste due polarità «non siano mai state risolte dalla Chiesa», è vero che «l’uomo, creato a immagine e somiglianza di Dio, non finisce e se non finisce porta con sé, dopo la morte, tutto ciò che è stato in vita, altrimenti sarebbe un’altra persona».
La Chiesa parla dunque «di premio per i giusti, di castigo per gli empi e di purificazione, così come di comunione tra vivi e morti, cioè della comunione dei santi che ci permette di pregare per i nostri morti e di chiedere ai santi di pregare per noi».
Sull’idea di una continuità tra vita terrena e ultraterrena ha giocato un ruolo decisivo il Concilio: «C’è stata una rivalutazione dell’escatologia realizzata, cioè della fede e della opere di carità che portano l’eternità nel tempo». Dopo «una svalutazione della realtà terrena tipica di una Chiesa del primo Ottocento ripiegata sullo spirituale», il Concilio infatti «ha rilanciato l’impegno in questo mondo e la condivisione con i fratelli».
Oggi la sfida è invece quella di «trasmettere e inculturare il messaggio cristiano in una società multietnica dove si sovrappongono diverse speranze nell’Aldilà».
«Solo negli ultimi decenni prima di Cristo – rileva lo studioso – si parla di Risurrezione, ma solo come premio per i giusti che vivranno in un mondo terreno, molto concreto, secondo una visione di tipo farisaico che emerge in testi come la Sapienza e il libro dei Maccabei». É con il cristianesimo che «inizia a diversificarsi il mondo oltre la morte e nel Nuovo Testamento si parla anche di un castigo per gli empi». Ecco che al fuoco delle Geenna si affiancano «la strana sintesi citata nell’Apocalisse di un Regno terreno dei giusti, quello dei mille anni» e le metafore sulla condizione dei morti prima della risurrezione. Quella del corpo è una questione fondamentale che viene evidenziata da san Paolo, specialmente quando entra in contatto con la mentalità greca.
«Oggi, nella cultura mediterranea e occidentale – osserva padre Garuti – convivono due correnti di pensiero: una indoeuropea, platonica e agostiniana, che intendendo il corpo come una prigione che resiste all’idea della risurrezione; e una semitica, legata al mondo biblico, aristotelica e scolastica, per la quale l’essere umano non può esistere senza il corpo. Tale corrente fa dunque fatica a spiegare cosa succede ai morti prima della risurrezione». Sebbene queste due polarità «non siano mai state risolte dalla Chiesa», è vero che «l’uomo, creato a immagine e somiglianza di Dio, non finisce e se non finisce porta con sé, dopo la morte, tutto ciò che è stato in vita, altrimenti sarebbe un’altra persona».
La Chiesa parla dunque «di premio per i giusti, di castigo per gli empi e di purificazione, così come di comunione tra vivi e morti, cioè della comunione dei santi che ci permette di pregare per i nostri morti e di chiedere ai santi di pregare per noi».
Sull’idea di una continuità tra vita terrena e ultraterrena ha giocato un ruolo decisivo il Concilio: «C’è stata una rivalutazione dell’escatologia realizzata, cioè della fede e della opere di carità che portano l’eternità nel tempo». Dopo «una svalutazione della realtà terrena tipica di una Chiesa del primo Ottocento ripiegata sullo spirituale», il Concilio infatti «ha rilanciato l’impegno in questo mondo e la condivisione con i fratelli».
Oggi la sfida è invece quella di «trasmettere e inculturare il messaggio cristiano in una società multietnica dove si sovrappongono diverse speranze nell’Aldilà».
Stefania Careddu
da Avvenire.it
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