sabato 20 ottobre 2012

ANCORA SUI ROSTRI DELLA PRIMA GUERRA PUNICA

Continuiamo la nostra esposizione sul progetto della Sovrintendenza del Mare della Sicilia per il ritrovamento degli antichi rostri delle navi della prima guerra punica.

Di seguito un video di presentazione, in attesa di vedere gli ultimi ritrovamenti:


RISULTATO DI UNA RICERCA



Ulivi del Getsemani, pubblicati gli esiti di un'indagine scientifica

di Carlo Giorgi | 19 ottobre 2012 www.terrasanta.net

Alcuni pellegrini contemplano il tronco intricato e maestoso di uno degli ulivi del Giardino del Getsemani, a Gerusalemme

(Roma) - Il giardino di ulivi del Getsemani, uno dei luoghi più sacri alla cristianità - memoria vivente dell'agonia del Signore Gesù prima del suo arresto - oggi può essere conosciuto più a fondo da ciascun credente. Infatti, sono finalmente disponibili i risultati di una ricerca scientifica favorita dalla Custodia di Terra Santa sulle otto piante millenarie del giardino. La ricerca, iniziata nel 2009, è durata tre anni ed è stata condotta da un team composto da ricercatori del Consiglio nazionale delle ricerche (Cnr), e varie università italiane. Lo studio è stato presentato oggi, alle 11.30, presso la Sala Marconi di Radio Vaticana, a Roma. Assieme al padre Custode, fra Pierbattista Pizzaballa, hanno raccontato ai giornalisti il senso e i risultati della ricerca fra Massimo Pazzini, decano dello Studium Biblicum Franciscanum di Gerusalemme, il professor Giovanni Gianfrate, coordinatore del progetto, agronomo ed esperto di storia dell'ulivo del Mediterraneo, e il professor Antonio Cimato, coordinatore della ricerca scientifica, primo ricercatore dell'Istituto valorizzazione del legno e delle specie arboree (Ivalsa)/Cnr di Firenze.

I risultati della ricerca hanno indicato la datazione del fusto di tre degli otto ulivi (gli unici per i quali è stato tecnicamente possibile eseguire lo studio), come risalente alla metà del Dodicesimo secolo. Perciò, alle piante viene riconosciuta un'età di circa novecento anni. Occorre però fare una precisazione: la datazione indicata è da intendersi riferita solamente alla parte epigea delle piante, ovvero quella costituita dalla parte emersa della pianta, cioè dal tronco e dalla chioma. Infatti la stessa ricerca ha dimostrato che la parte ipogea, ovvero quella costituita dalle radici, è di certo più antica.
L'esito dell'indagine, inoltre, deve essere messo in relazione con antiche cronache di viaggio dei pellegrini, secondo le quali la seconda basilica del Getsemani venne costruita fra il 1150 e il 1170 (periodo, durante il quale i Crociati erano impegnati nella ricostruzione delle grandi chiese della Terra Santa e di Gerusalemme in particolare). Appare dunque verosimile che, in occasione della costruzione della basilica del Getsemani sia stato anche risistemato il giardino, realizzando un intervento di recupero degli ulivi presenti a quel tempo.

Un altro risultato di grande interesse è emerso quando i ricercatori hanno definito l’impronta genetica (fingerprinting) delle otto piante. Le analisi di particolari regioni del Dna hanno descritto «profili genetici identici» tra tutti gli otto individui. Tale conclusione fa emergere la peculiarità che gli otto ulivi siano, usando un termine metaforico, «gemelli» tra loro e, quindi, appartenenti allo stesso «genotipo». Questo può voler dire solo una cosa: che gli otto ulivi sono tutti «figli» di uno stesso esemplare. Ovvero si può sostenere che, in un preciso momento della storia - nel Dodicesimo secolo, ma probabilmente anche molto prima -, vennero messe a dimora nel giardino del Getsemani porzioni di rami più o meno grossi (talee di ramo) prelevate da un'unica pianta, con modalità simili a quelle tuttora adottate dai giardinieri palestinesi. Occorre allora domandarsi in che momento, nel corso dei secoli, sarebbero state messe a dimora queste talee. Per i Vangeli, al tempo di Gesù Cristo, gli ulivi erano già lì ed erano adulti. E la loro successiva esistenza è testimoniata da un attento esame comparato delle descrizioni del luogo santo, fatta da storici e pellegrini, nel corso dei secoli.

Fra Pierbattista Pizzaballa, presentando i risultati della ricerca ha osservato che «per ogni cristiano, gli ulivi del Giardino del Getsemani costituiscono un riferimento “vivente” alla Passione di Cristo; della testimonianza all'obbedienza assoluta al Padre, anche nel sacrificare la Sua persona per la salvezza dell'uomo, di tutti gli uomini; e sono anche indicazione e memoria della disponibilità che l'uomo deve avere nel “fare la volontà di Dio”, unico modo per distinguersi credente. In questo luogo, Cristo pregò il Padre e si affidò a Lui per superare l'angoscia della morte, l'’Agonia’, la Passione e la terribile esecuzione di croce, confidando nella vittoria finale, la Risurrezione e la Redenzione degli uomini.

Questi ulivi plurisecolari raffigurano il “radicamento” e la “continuità generazionale” della comunità cristiana della Chiesa Madre di Gerusalemme. Come questi ulivi - piantati, bruciati, abbattuti e di nuovo germogliati, nel corso della storia, su una “inesauribile” ceppaia - così la prima comunità cristiana sopravvive vigorosa, animata dallo Spirito di Dio, nonostante gli ostacoli e le persecuzioni».

giovedì 18 ottobre 2012

I ROSTRI DELLA PRIMA GUERRA PUNICA



L’affascinante ricerca in fondo al mare per scrivere di una battaglia navale cha ha cambiato la nostra storia

Creato il 27 luglio 2012 da Maremagazine

Il nome dell’archeologo Sebastiano Tusa ormai è indissolubilmente legato alla ricerca e alla localizzazione del teatro della Battaglia delle Egadi, che mise fine alla Prima Guerra Punica. La sua è stata una ricerca che prende il via nel 1985 quando durante “II Convegno Internazionale per un’Archeologia del Mediterraneo” organizzato – per la Settimana delle Egadi – da Giulia D’Angelo e da Nino Allegra direttore dell’Ente Provinciale per il Turismo di Trapani, aprì la sua relazione evidenziando il fatto che “…nel campo della ricerca archeologica sottomarina l’assenza delle testimonianze scritte può essere colmata soltanto dal rinvenimento di prove inconfutabili…”.
A conferma parlò di Cecè Paladino, un pioniere della subacquea chiamato “l’ultimo dei Florio” e della sua testimonianza: la storia del recupero negli anni sessanta e settanta di centinaia di ceppi d’ancora in piombo rinvenuti sui fondali di fronte alla parete rocciosa nella parte del versante orientale dell’isola di Levanzo, una costa inaccessibile con pareti a strapiombo, da punta Altarella a Capogrosso. Questi ceppi di piombo (un ceppo poteva pesare anche 150 chili!) vennero recuperati e (come si usava allora senza comunicarlo alla Soprintendenza!) fusi per farne pesi per le reti e anche per le cinture da sub.

Ma tutta la storia “l’ispettore” Sebastiano ha avuto modo si raccontarla il 13 maggio di quest’anno durante una visita guidata all’ex Stabilimento Florio, tornato al suo splendore con un restauro capolavoro, e dove sono esposte alcune delle “prove inconfutabili”, a parte alcuni ceppi uno dei rostri, quello cartaginese.

Ecco la sua “lezione” per intero a partire da quel 1985.

Il racconto mi impressionò: cosa ci facevano tutti questi ceppi in quella zona che certamente non è un luogo d’ancoraggio e nemmeno di ridosso. Sullo stimolo di Cecè mi venne l’idea che fossero legati a uno degli eventi più importanti che questa zona ha vissuto da un punto di vista navale, la battaglia delle Egadi che si combatté la mattina del 10 marzo del 241 a.C. tra cartaginesi e romani. 
Ovviamente era un indizio peraltro non più provabile perché i ceppi d’ancora non c’erano più. Quando molti anni dopo ebbi la possibilità sia come Soprintendenza di Trapani sia dopo come soprintendenza del Mare di interagire direttamente con questa zona, anche con l’aiuto di Francesco Marrazza, riprendemmo le perlustrazioni in queste zone e trovammo ancora una decina di ceppi d’ancora nella zona fìnale di questa falesia, verso Capo Grosso. E in me si faceva sempre più strada l’idea che quello che i grandi storici dicevano, in effetti fosse sbagliato ossia che la battaglia fosse stata combattuta a Cala Rossa, a sud di Favignana. Rileggendo le fonti, Polibio prima di tutto, sembrava più logico che la rotta seguita dalle 700 navi cartaginesi non fosse passata nel canale tra Levanzo e Favignana, bensì a nord di Levanzo. Anche perché, come io dico che l’archeologia subacquea si fa prima a terra e poi in acqua, dove andavano i cartaginesi? Andavano ad aiutare le truppe di Amilcare che si trovavano assediate sulla cime del San Giuliano. Il porto di Trapani, sebbene era tenuto dai cartaginesi, tuttavia non era collegato con la cima del San Giuliano e i romani chiudevano presso pizzo Argenteria l’accesso dal lato di Trapani. 
L’unico possibile accesso era sul lato di Bonagia, quindi a nord del porto. Per cui era evidente che i cartaginesi volevano approdare in un luogo sicuro in modo di arrivare facilmente sulla vetta. La Prima Guerra Punica fu una guerra disastrosa per entrambi durò oltre trent’anni, si era a un punto di stallo non vinceva nessuno, era una guerra di posizione dove si fronteggiavano a terra tra Palermo e Trapani. I cartaginesi allora decisero di forzare il blocco romano tentando di portare aiuto alla loro guarnigione mentre i romani si resero conto che quello sarebbe diventato lo scontro che avrebbe deciso le sorti della Prima Guerra Punica e ipotecato ciò che sarebbe avvenuto dopo, cioè la conquista totale del Mediterraneo e la distruzione di Cartagine. Lo scontro fu epocale, come avvenne? Dalle fonti sappiamo che Annone, l’ammiraglio della flotta cartaginese, arriva con circa 700 navi da Cartagine e si ancora presso Marettimo all’alba del 10 marzo del 241 a.C. Una leggera brezza da ponente dà l’idea ad Annone di salpare la sua grande flotta facendo rotta a nord di Levanzo per andare ad approdare a Bonagia. 
L’ammiraglio romano Lutazio Catulo che evidentemente aveva intuito che la rotta di Annone poteva essere quella a nord di Levanzo, piazza una gran parte della sua flotta proprio in quella zona dove Cecè Paladino e i suoi amici trovarono i ceppi d’ancora. il Console dette l’ordine repentino di salpare tagliando le cime, nel gergo marinaro questo significa lasciare le ancore per non perdere tempo a salparle. Quindi è quasi certo, ipotizzabile che le ancora vennero lasciate cadere e si diede l’ordine di remare a tutta forza verso il fianco della flotta nemica.
Fin qui la ricostruzione, ma come ben si sa l’archeologia ha bisogno di prove come ogni altra scienza. L’archeologo se afferma certe cose le deve provare con prove precise. E quali potevano essere le prove? Trovare le navi della battaglia o comunque dei reperti, elementi che potessero indiziare il luogo dello scontro. Quando divenni Soprintendente del Mare ebbe l’opportunità, come mi è capitato altre volte nella vita, quando ho avuto dei problemi mi sono sempre rivolto all’archeologo numero uno dell’archeologia subacquea mondiale, ovvero a George Bass, colui che ha inventato l’archeologia subacquea moderna. 
Gli chiesi aiuto e lui mi mise in contatto con la fondazione americana RPM Nautical Foundation. In America ci sono i famosi ricercatori di tesori, Ballard è il più famoso, che noi demonizziamo per avere noi una concezione statalista dei beni culturali per cui tutto appartiene allo stato. Negli negli USA invece si ha una cultura molto privatistica. Però ci sono alcuni di questi cercatori di tesori che si dedicano alla ricerca scientifica. 
Presi i contatti con questa fondazione e dissi loro di fare la ricerca delle tracce della battaglia nella zona che indicai. L’oggetto principale che poteva dare un segnale erano gli oggetti in metallo, quindi principalmente armi o rostri, la parte di metallo più grossa. Secondo le fonti noi oggi sappiamo che i rostri furono i protagonisti della battaglia perché Catulo diede l’ordine di salpare e scaraventò le sue navi violentemente contro i fianchi delle navi cartaginesi determinando lo scompiglio. I rostri penetravano nei fianchi delle navi e le affondavano o comunque le rendevano inutilizzabili, rompevano l’apparato remiero determinando l’impossibilità di governarle. 
È da notare come i rostri non fossero fissati al dritto di prua in modo inamovibile, ma con semplici chiodi. Infatti, se dopo avere colpito lo scafo avversario il rostro rimaneva conficcato nel fasciame nemico, la nave speronante non poteva più governare, e poteva essere trascinata a fondo anch’essa. Annone non riuscì più a mantenere i collegamenti tra i suoi vari ammiragli, e visto che il vento durante la giornata era cambiato da ponente a maestrale tramontana girando poi a grecale, diede l’ordine alla flotta di fare marcia indietro, vento in poppa e scappare di nuovo verso Marettimo. 
Quindi il luogo dello scontro doveva essere da qualche parte a nord di Levanzo. Cominciammo così le ricerche ma in quel momento avvenne un fatto che ci aiutò molto: nel 2004 riuscimmo con il nucleo di tutela patrimoniale dei Beni Culturali dei Carabinieri a trovare un rostro nel magazzino di un dentista trapanese il quale lo aveva avuto in dono da alcuni pescatori che evidentemente lo avevano trovato con le reti a strascico. Ora è in mostra al Museo Pepoli di Trapani. Dagli indizi che abbiamo raccolto dal dentista che era in buona fede e non aveva nessuna intenzione di farne commercio, rilevammo che il luogo del ritrovamento era a nord ovest di Levanzo. Concentrammo così lì le nostre ricerche. Dal 2004 ad oggi abbiamo trovato altri 6 rostri sempre nella stessa zona, oltre ai rostri ben 7 elmi, ma non abbiamo trovato resti lignei. Infatti leggendo il Zonara dà un’iperbole molto efficace: dato il mutamento del regime dei venti e delle correnti, questi resti di legni riempirono tutto lo spazio  di mare tra la Sicilia e la Sardegna: un’iperbole che sta a dire che i legni si sparsero, una barca colpita non è che cola a picco immediatamente, imbarca acqua e affonda chissà dove in uno spazio di mare molto grande. Tanto è vero che la nave punica di Marsala trovata da Honor Frost è stata trovata a Punta Scario punta settentrionale dell’isola Longa, molto distante dal luogo della battaglia. 
Come si è avuto questo risultato eccezionale decantato in tutto il mondo? è il risultato di una ricerca che nasce con il progetto “Archeorete Egadi”. Seguendo un metodo sistematico abbiamo sezionato il mare con delle griglie precise e l’imbarcazione Hercules messa a disposizione ha scandagliato circa 210 Kmq di questo mare in maniera estremamente precisa senza tralasciare spazi inesplorati. Come ci si è riusciti? Prima di tutto perché la nave è a posizionamento dinamico, con le sue 4 eliche e 4 motori governati da un computer che gestisce la rotta, una specie di ancora digitale. Una volta stabilita la rotta ogni minimo scostamento viene automaticamente corretto dalle eliche. Il posizionamento dinamico è essenziale perché alla posizione satellitare della nave sono legati tutti gli altri strumenti che scandagliano il fondo. Principalmente un sonar a scansione laterale, una sorta di pesce trainato che lancia dei segnali che rifrangono quello che trovano sul fondo disegnandolo. Poi il Multi Beam, un altro sonar a scansione radiale che si pone sotto la barca e infine il ROV. Quindi con i sonar recepiamo i segnali sonar decodificati e interpretati per disegnare il fondo e per capire di quale oggetto si tratta. In una seconda fase su quei target che vengono letti come potenzialmente archeologici si ritorna con il ROV (Remote Operate Vehicle), una grande robot, con molte telecamere, dei bracci manipolatori e una sorbona, viene calato sui target e le telecamere vedono quello che si trova sul fondo. Con questo sistema abbiamo trovato 6 rostri il settimo è quello trovato recentemente da pescatori di Trapani. 
Quindi sette rostri e 7 elmi che vengono tutti dalla stessa zona. Ora siamo certi che quello è il luogo della battaglia, a circa 3 miglia a nord ovest di Levanzo. Conoscevamo i rostri attraverso le colonne rostrate, le iconografie, attraverso l’unico rostro trovato negli anni ’70 dall’archeologo israeliano Elisha Linder, recentemente scomparso. 
Abbiamo analizzato i rostri in maniera approfondita e abbiamo avuto anche la fortuna di trovare delle iscrizioni. Ne abbiamo uno certamente cartaginese perché ha inciso in caratteri punici, una invocazione alla divinità: “Che Baal possa far penetrare questo strumento nel ventre della nave nemica”. Nei rostri romani abbiamo invece delle iscrizioni completamente diverse, ovviamente in latino, che dimostrano la differenza dell’attitudine dei romani nei confronti della guerra. “C•PAPERIO•T•F• M•POPULICIO•L•F•Q•P” interpretate dall’archeologa Francesca Olivieri, della Soprintendenza del Mare, come “Caio Paperio Tiberii Filii e Marco Populicio Luci Filii Queaestoria Protestate”. Probabilmente sono i nomi dei magistrati che finanziarono la spedizione. I romani non si affidano alle divinità, ma a sé stessi, infatti le iscrizioni sono delle probatio, due questori affermano “io ho fatto questo rostro e ho provato che è fatto bene”. 

Infatti sappiamo che le grandi famiglie romane acquistavano o producevano i rostri a loro spese, e che li montavano sulle navi che loro stessi fornivano, dimostrando così la loro partecipazione diretta all’impresa. La tipologia dei rostri è detta a tridente che nasce quasi sicuramente in oriente, si sviluppa per tutta la romanità e segue quello che prima era il rostro a pungiglione di cui però non abbiamo riscontri diretti, cioè a semplice sperone ed era a perdere, penetrava nella nave nemica e restava come il pungiglione di un’ape. Nel V e IV secolo nasce il rostro a tridente che ebbe una fortuna eccezionale per la capacità contundente e perché taglia con i suoi fendenti orizzontali. Quindi provocava una ferita mortale anche perché il rostro era sotto il pelo dell’acqua. Sono in bronzo, lega di rame e stagno. Dopo queste scoperte sono usciti fuori altri rostri; uno al Museo del Pireo dimenticato in qualche magazzino e che ora è esposto; poi quello di Bremenafen, certamente di provenienza mediterranea, nel momento in cui abbiamo chiesto dati per studiarlo lo hanno nascosto e lo hanno mandato a Magonza; è in atto una rogatoria internazionale per riuscire ad averlo, per farlo tornare in Italia; un altro, grande come quello di Atlit, è stato sequestrato in Toscana presso la casa di un ’ndraghista, si chiama rostro di Follonica ma non si sa da dove viene si trova anche se è a Pisa in restauro, contiamo di averlo presto qui a Trapani; Infine è uscito fuori un rostro dalla Libia che era stato trovato in Cirenaica da un sommozzatore inglese che se l’era portato a casa sua a Oxford. 
Quando si sono resi conto di cosa si trattasse lo hanno restituito alla Libia, probabilmente è un proembolon, uno strumento in bronzo con una testa d’ariete che serviva per frenare la penetrazione del rostro nella nave nemica, se fosse penetrato troppo poteva non uscire, rimanere incastrato bloccando la nave assalitrice. In Italia c’è né uno esposto al Museo di Torino e uno a Genova. 
I rostri sono in bronzo, una lega in rame e stagno, quelli romani hanno una piccola percentuale di piombo, mentre l’unico cartagenise che abbiamo recuperato ha una più alta percentuale di piombo.  La differenza stava a significare due cose: la prima che qualcuna “rubava” sulla fusione perché il piombo costa meno del rame o più semplicemente perché i cartaginesi avevano colonie in Iberia con miniere di piombo, quindi ne avevano molto a disposizione da utilizzare per produrre il bronzo.

Testo raccolto e ordinato da Maurizio Bizziccari



Il progetto “Archeorete Egadi” ha inizio nel 2005, quando la Soprintendenza del Mare inizia la collaborazione con la statunitense Rpm Nautical Foundation, diretta da George Robb Jr e di cui fa parte l’archeologo Jeffry G.Royal. La Rpm ha messo a disposizione la sua nave da ricerca Hercules. Il progetto è seguito e supportato dall’Assessorato ai Beni Culturali e l’Identità Siciliana della Regione Sicilia, tramite la Soprintendenza del Mare, diretta Tusa, consulente scientifico del progetto e dall’architetto Stefano Zangara, responsabile dell’ufficio “Progettazione delle ricerche in alto fondale e degli itinerari culturali subacquei” della Soprintendenza del Mare. Inoltre, Salvatore Palazzolo, funzionario dell’Unità Operativa diretta dall’architetto Zangara segue operativamente le varie campagne delle Egadi ed è il tramite fra gli italiani e gli americani.
 Nella foto il prof. Tusa ispeziona un rostro

 Il rostro cartaginese esposto al museo

 Il ROV mentre recupera uno dei rostri