L’affascinante ricerca in
fondo al mare per scrivere di una battaglia navale cha ha cambiato la nostra
storia
Il nome dell’archeologo Sebastiano Tusa ormai è indissolubilmente
legato alla ricerca e alla localizzazione del teatro della Battaglia delle
Egadi, che mise fine alla Prima Guerra Punica. La sua è stata una ricerca che
prende il via nel 1985 quando durante “II Convegno Internazionale per
un’Archeologia del Mediterraneo” organizzato – per la Settimana delle Egadi –
da Giulia D’Angelo e da Nino Allegra direttore dell’Ente Provinciale per il
Turismo di Trapani, aprì la sua relazione evidenziando il fatto che “…nel
campo della ricerca archeologica sottomarina l’assenza delle testimonianze
scritte può essere colmata soltanto dal rinvenimento di prove inconfutabili…”.
A conferma parlò di Cecè Paladino, un pioniere della subacquea chiamato
“l’ultimo dei Florio” e della sua testimonianza: la storia del recupero negli
anni sessanta e settanta di centinaia di ceppi d’ancora in piombo rinvenuti sui
fondali di fronte alla parete rocciosa nella parte del versante orientale
dell’isola di Levanzo, una costa inaccessibile con pareti a strapiombo, da
punta Altarella a Capogrosso. Questi ceppi di piombo (un ceppo poteva pesare
anche 150 chili!) vennero recuperati e (come si usava allora senza comunicarlo
alla Soprintendenza!) fusi per farne pesi per le reti e anche per le cinture da
sub.
Ma tutta la storia “l’ispettore” Sebastiano ha avuto
modo si raccontarla il 13 maggio di quest’anno durante una visita guidata
all’ex Stabilimento Florio, tornato al suo splendore con un restauro
capolavoro, e dove sono esposte alcune delle “prove inconfutabili”, a parte
alcuni ceppi uno dei rostri, quello cartaginese.
Ecco la sua “lezione” per intero a partire da quel
1985.
Il racconto mi impressionò: cosa ci facevano tutti
questi ceppi in quella zona che certamente non è un luogo d’ancoraggio e
nemmeno di ridosso. Sullo stimolo di Cecè mi venne l’idea che fossero legati a
uno degli eventi più importanti che questa zona ha vissuto da un punto di vista
navale, la battaglia delle Egadi che si combatté la mattina del 10 marzo del
241 a.C. tra cartaginesi e romani.
Ovviamente era un indizio peraltro non più provabile
perché i ceppi d’ancora non c’erano più. Quando molti anni dopo ebbi la
possibilità sia come Soprintendenza di Trapani sia dopo come
soprintendenza del Mare di interagire direttamente con questa zona, anche con
l’aiuto di Francesco Marrazza, riprendemmo le perlustrazioni in queste zone e
trovammo ancora una decina di ceppi d’ancora nella zona fìnale di questa
falesia, verso Capo Grosso. E in me si faceva sempre più strada l’idea che
quello che i grandi storici dicevano, in effetti fosse sbagliato ossia che la
battaglia fosse stata combattuta a Cala Rossa, a sud di Favignana. Rileggendo
le fonti, Polibio prima di tutto, sembrava più logico che la rotta
seguita dalle 700 navi cartaginesi non fosse passata nel canale tra Levanzo e
Favignana, bensì a nord di Levanzo. Anche perché, come io dico che
l’archeologia subacquea si fa prima a terra e poi in acqua, dove andavano i
cartaginesi? Andavano ad aiutare le truppe di Amilcare che si trovavano
assediate sulla cime del San Giuliano. Il porto di Trapani, sebbene era
tenuto dai cartaginesi, tuttavia non era collegato con la cima del San Giuliano
e i romani chiudevano presso pizzo Argenteria l’accesso dal lato di Trapani.
L’unico possibile accesso era sul lato di Bonagia, quindi a nord del porto.
Per cui era evidente che i cartaginesi volevano approdare in un luogo sicuro in
modo di arrivare facilmente sulla vetta. La Prima Guerra Punica fu una guerra
disastrosa per entrambi durò oltre trent’anni, si era a un punto di stallo non
vinceva nessuno, era una guerra di posizione dove si fronteggiavano a terra tra
Palermo e Trapani. I cartaginesi allora decisero di forzare il
blocco romano tentando di portare aiuto alla loro guarnigione mentre i romani
si resero conto che quello sarebbe diventato lo scontro che avrebbe deciso le
sorti della Prima Guerra Punica e ipotecato ciò che sarebbe avvenuto dopo, cioè
la conquista totale del Mediterraneo e la distruzione di Cartagine. Lo scontro
fu epocale, come avvenne? Dalle fonti sappiamo che Annone, l’ammiraglio della flotta
cartaginese, arriva con circa 700 navi da Cartagine e si ancora presso
Marettimo all’alba del 10 marzo del 241 a.C. Una leggera brezza da ponente dà
l’idea ad Annone di salpare la sua grande flotta facendo rotta a nord di
Levanzo per andare ad approdare a Bonagia.
L’ammiraglio romano Lutazio Catulo che evidentemente
aveva intuito che la rotta di Annone poteva essere quella a nord di Levanzo,
piazza una gran parte della sua flotta proprio in quella zona dove Cecè
Paladino e i suoi amici trovarono i ceppi d’ancora. il Console dette l’ordine
repentino di salpare tagliando le cime, nel gergo marinaro questo significa
lasciare le ancore per non perdere tempo a salparle. Quindi è quasi certo,
ipotizzabile che le ancora vennero lasciate cadere e si diede l’ordine di
remare a tutta forza verso il fianco della flotta nemica.
Fin qui la ricostruzione, ma come ben si sa
l’archeologia ha bisogno di prove come ogni altra scienza. L’archeologo se
afferma certe cose le deve provare con prove precise. E quali potevano essere
le prove? Trovare le navi della battaglia o comunque dei reperti, elementi che
potessero indiziare il luogo dello scontro. Quando divenni Soprintendente del Mare ebbe
l’opportunità, come mi è capitato altre volte nella vita, quando ho avuto dei
problemi mi sono sempre rivolto all’archeologo numero uno dell’archeologia
subacquea mondiale, ovvero a George Bass, colui che ha inventato l’archeologia subacquea
moderna.
Gli chiesi aiuto e lui mi mise in contatto con la fondazione americana RPM
Nautical Foundation. In America ci sono i famosi ricercatori di tesori, Ballard
è il più famoso, che noi demonizziamo per avere noi una concezione statalista
dei beni culturali per cui tutto appartiene allo stato. Negli negli USA invece
si ha una cultura molto privatistica. Però ci sono alcuni di questi cercatori
di tesori che si dedicano alla ricerca scientifica.
Presi i contatti con questa fondazione e dissi loro di fare la ricerca delle
tracce della battaglia nella zona che indicai. L’oggetto principale che poteva
dare un segnale erano gli oggetti in metallo, quindi principalmente armi o
rostri, la parte di metallo più grossa. Secondo le fonti noi oggi sappiamo che
i rostri furono i protagonisti della battaglia perché Catulo diede l’ordine di
salpare e scaraventò le sue navi violentemente contro i fianchi delle navi
cartaginesi determinando lo scompiglio. I rostri penetravano nei fianchi delle
navi e le affondavano o comunque le rendevano inutilizzabili, rompevano
l’apparato remiero determinando l’impossibilità di governarle.
È da notare come i rostri non fossero fissati al dritto di prua in modo
inamovibile, ma con semplici chiodi. Infatti, se dopo avere colpito lo scafo
avversario il rostro rimaneva conficcato nel fasciame nemico, la nave
speronante non poteva più governare, e poteva essere trascinata a fondo
anch’essa. Annone non riuscì più a mantenere i collegamenti tra i suoi vari
ammiragli, e visto che il vento durante la giornata era cambiato da ponente a
maestrale tramontana girando poi a grecale, diede l’ordine alla flotta di fare
marcia indietro, vento in poppa e scappare di nuovo verso Marettimo.
Quindi il luogo dello scontro doveva essere da qualche
parte a nord di Levanzo. Cominciammo così le ricerche ma in quel momento
avvenne un fatto che ci aiutò molto: nel 2004 riuscimmo con il nucleo di tutela
patrimoniale dei Beni Culturali dei Carabinieri a trovare un rostro nel
magazzino di un dentista trapanese il quale lo aveva avuto in dono da alcuni
pescatori che evidentemente lo avevano trovato con le reti a strascico. Ora è
in mostra al Museo Pepoli di Trapani. Dagli indizi che abbiamo raccolto
dal dentista che era in buona fede e non aveva nessuna intenzione di farne
commercio, rilevammo che il luogo del ritrovamento era a nord ovest di Levanzo.
Concentrammo così lì le nostre ricerche. Dal 2004 ad oggi abbiamo trovato altri
6 rostri sempre nella stessa zona, oltre ai rostri ben 7 elmi, ma non abbiamo
trovato resti lignei. Infatti leggendo il Zonara dà un’iperbole molto efficace:
dato il mutamento del regime dei venti e delle correnti, questi resti di legni
riempirono tutto lo spazio di mare tra la Sicilia e la Sardegna:
un’iperbole che sta a dire che i legni si sparsero, una barca colpita non è che
cola a picco immediatamente, imbarca acqua e affonda chissà dove in uno
spazio di mare molto grande. Tanto è vero che la nave punica di Marsala trovata
da Honor Frost è stata trovata a Punta Scario punta settentrionale dell’isola
Longa, molto distante dal luogo della battaglia.
Come si è avuto questo risultato eccezionale decantato
in tutto il mondo? è il risultato di una ricerca che nasce con il progetto
“Archeorete Egadi”. Seguendo un metodo sistematico abbiamo sezionato il mare
con delle griglie precise e l’imbarcazione Hercules messa a disposizione
ha scandagliato circa 210 Kmq di questo mare in maniera estremamente precisa
senza tralasciare spazi inesplorati. Come ci si è riusciti? Prima di tutto
perché la nave è a posizionamento dinamico, con le sue 4 eliche e 4 motori
governati da un computer che gestisce la rotta, una specie di ancora digitale.
Una volta stabilita la rotta ogni minimo scostamento viene automaticamente
corretto dalle eliche. Il posizionamento dinamico è essenziale perché alla
posizione satellitare della nave sono legati tutti gli altri strumenti che
scandagliano il fondo. Principalmente un sonar a scansione laterale, una sorta
di pesce trainato che lancia dei segnali che rifrangono quello che trovano sul
fondo disegnandolo. Poi il Multi Beam, un altro sonar a scansione radiale che
si pone sotto la barca e infine il ROV. Quindi con i sonar recepiamo i segnali
sonar decodificati e interpretati per disegnare il fondo e per capire di quale
oggetto si tratta. In una seconda fase su quei target che vengono letti come
potenzialmente archeologici si ritorna con il ROV (Remote Operate Vehicle), una
grande robot, con molte telecamere, dei bracci manipolatori e una sorbona,
viene calato sui target e le telecamere vedono quello che si trova sul fondo.
Con questo sistema abbiamo trovato 6 rostri il settimo è quello trovato
recentemente da pescatori di Trapani.
Quindi sette rostri e 7 elmi che vengono tutti dalla stessa zona. Ora siamo
certi che quello è il luogo della battaglia, a circa 3 miglia a nord ovest di
Levanzo. Conoscevamo i rostri attraverso le colonne rostrate, le iconografie,
attraverso l’unico rostro trovato negli anni ’70 dall’archeologo israeliano
Elisha Linder, recentemente scomparso.
Abbiamo analizzato i rostri in maniera
approfondita e abbiamo avuto anche la fortuna di trovare delle iscrizioni. Ne
abbiamo uno certamente cartaginese perché ha inciso in caratteri punici, una
invocazione alla divinità: “Che Baal possa far penetrare questo strumento nel
ventre della nave nemica”. Nei rostri romani abbiamo invece delle iscrizioni
completamente diverse, ovviamente in latino, che dimostrano la differenza
dell’attitudine dei romani nei confronti della guerra. “C•PAPERIO•T•F•
M•POPULICIO•L•F•Q•P” interpretate dall’archeologa Francesca Olivieri, della
Soprintendenza del Mare, come “Caio Paperio Tiberii Filii e Marco Populicio
Luci Filii Queaestoria Protestate”. Probabilmente sono i nomi dei magistrati
che finanziarono la spedizione. I romani non si affidano alle divinità, ma a sé
stessi, infatti le iscrizioni sono delle probatio, due questori affermano “io
ho fatto questo rostro e ho provato che è fatto bene”.
Infatti sappiamo che le grandi famiglie romane
acquistavano o producevano i rostri a loro spese, e che li montavano sulle navi
che loro stessi fornivano, dimostrando così la loro partecipazione diretta
all’impresa. La tipologia dei rostri è detta a tridente che nasce quasi
sicuramente in oriente, si sviluppa per tutta la romanità e segue quello che
prima era il rostro a pungiglione di cui però non abbiamo riscontri diretti,
cioè a semplice sperone ed era a perdere, penetrava nella nave nemica e restava
come il pungiglione di un’ape. Nel V e IV secolo nasce il rostro a tridente che
ebbe una fortuna eccezionale per la capacità contundente e perché taglia con i
suoi fendenti orizzontali. Quindi provocava una ferita mortale anche perché il
rostro era sotto il pelo dell’acqua. Sono in bronzo, lega di rame e stagno.
Dopo queste scoperte sono usciti fuori altri rostri; uno al Museo del Pireo
dimenticato in qualche magazzino e che ora è esposto; poi quello di Bremenafen,
certamente di provenienza mediterranea, nel momento in cui abbiamo chiesto dati
per studiarlo lo hanno nascosto e lo hanno mandato a Magonza; è in atto una
rogatoria internazionale per riuscire ad averlo, per farlo tornare in Italia;
un altro, grande come quello di Atlit, è stato sequestrato in Toscana
presso la casa di un ’ndraghista, si chiama rostro di Follonica ma non si sa da
dove viene si trova anche se è a Pisa in restauro, contiamo di averlo presto
qui a Trapani; Infine è uscito fuori un rostro dalla Libia che era stato
trovato in Cirenaica da un sommozzatore inglese che se l’era portato a casa sua
a Oxford.
Quando si sono resi conto di cosa si trattasse lo hanno
restituito alla Libia, probabilmente è un proembolon, uno strumento in bronzo
con una testa d’ariete che serviva per frenare la penetrazione del rostro nella
nave nemica, se fosse penetrato troppo poteva non uscire, rimanere incastrato
bloccando la nave assalitrice. In Italia c’è né uno esposto al Museo di Torino
e uno a Genova.
I rostri sono in bronzo, una lega in rame e stagno, quelli romani hanno una
piccola percentuale di piombo, mentre l’unico cartagenise che abbiamo
recuperato ha una più alta percentuale di piombo. La differenza stava a
significare due cose: la prima che qualcuna “rubava” sulla fusione perché il
piombo costa meno del rame o più semplicemente perché i cartaginesi avevano
colonie in Iberia con miniere di piombo, quindi ne avevano molto a disposizione
da utilizzare per produrre il bronzo.
Testo raccolto e ordinato da Maurizio Bizziccari
Il progetto “Archeorete Egadi” ha inizio nel 2005,
quando la Soprintendenza del Mare inizia la collaborazione con la statunitense Rpm Nautical Foundation, diretta da George Robb Jr e di cui fa
parte l’archeologo Jeffry G.Royal. La Rpm ha messo a
disposizione la sua nave da ricerca Hercules. Il progetto è seguito e
supportato dall’Assessorato ai Beni Culturali e l’Identità Siciliana
della Regione Sicilia, tramite la Soprintendenza del Mare, diretta Tusa,
consulente scientifico del progetto e dall’architetto Stefano Zangara,
responsabile dell’ufficio “Progettazione delle ricerche in alto fondale e degli
itinerari culturali subacquei” della Soprintendenza del Mare. Inoltre, Salvatore
Palazzolo, funzionario dell’Unità Operativa diretta dall’architetto Zangara
segue operativamente le varie campagne delle Egadi ed è il tramite fra gli
italiani e gli americani.
Nella foto il prof. Tusa ispeziona un rostro
Il rostro cartaginese esposto al museo
Il ROV mentre recupera uno dei rostri