Rinascere a Gerusalemme
di Gianni Criveller
Sei mesi sabbatici nella terra di Gesù per ritrovarsi al centro della
“geografia della salvezza”. E aprire gli occhi sul passato e sull’attualità. Il
racconto di padre Criveller.
Al cardinale
Martini, che aveva fatto di Gerusalemme il luogo del cuore della sua vita, mi
sono ispirato nei sei mesi (da febbraio ad agosto) trascorsi lì: sei
indimenticabili mesi, che avrei voluto non si fossero conclusi. Proprio dal
cardinale Martini prendo in prestito alcuni pensieri per scrivere queste righe
sulla mia esperienza. Negli ultimi tempi si era fatto in me più urgente il
bisogno di un tempo qualitativo nella terra di Gesù. Come Martini, molte persone
- pellegrini, soldati, peccatori e santi - lungo la storia hanno desiderato
visitare Gerusalemme e la Terrasanta. Tra essi Francesco d'Assisi, Ignazio di
Loyola, Charles de Foucauld. Credo che questo desiderio, o nostalgia per quei
"luoghi santi", sia dentro il cuore di tanti discepoli di Cristo.
Vivere nei luoghi di Gesù e dei suoi apostoli ci inserisce in una dimensione
tutta speciale dell'esperienza cristiana. Se c'è una «storia della salvezza» -
mi ha detto il custode di Terrasanta Pierbattista Pizzaballa - c'è anche una «geografia della
salvezza». Gerusalemme è al centro di entrambe. Un giorno padre Martini,
allora studente, nel corso di una visita archeologica, rischiò seriamente di
morire cadendo in un pozzo. Nel momento del pericolo ebbe un pensiero: «Come è
bello morire qui in Terrasanta!». E quando venne salvato, ebbe un'altra
intuizione molto forte: «Ciascuno è nato a Gerusalemme». In un senso molto
importante la Gerusalemme terrena è la patria dei cristiani, dei credenti nella
Gerusalemme celeste, degli uomini di buona volontà che desiderano la
pace. Quando mi recavo al Muro occidentale, luogo di preghiera degli
ebrei, a ridosso della spianata del Tempio dove si trova il luogo santo dei
musulmani, a pochi minuti dal Santo sepolcro e da altri luoghi sacri per i
cristiani, recitavo le bellissime strofe del salmo 122: «Quale gioia quando mi
dissero: andremo alla casa del Signore. E ora i nostri piedi si fermano alle
tue porte, Gerusalemme! (...) Domandate pace per Gerusalemme: sia pace a coloro
che ti amano, sia pace sulle tue mura, sicurezza nei tuoi
baluardi». Gerusalemme sembra avere una relazione speciale con la pace e
con il mondo, come se non ci fosse pace nel mondo finché questa non sia vissuta
a Gerusalemme. Anche il "sindaco santo di Firenze", Giorgio La Pira,
aveva questa convinzione e si impegnò con tutte le sue forze per la pace in
Terrasanta, tra i popoli e le religioni. Ma ancora oggi le religioni falliscono
questo compito: Gerusalemme è tuttora il luogo dove le ideologie religiose,
spesso estreme, vivono una accanto all'altra, non per il dialogo e la
costruzione della pace, ma per contrapporsi l'una all'altra, ognuna per
affermare le proprie prerogative e consolidare i propri spazi. Qui, ancora
oggi, ebrei, cristiani e musulmani lottano, e perciò la città della pace non è
la città dell'ecumenismo e del dialogo religioso, bensì la città del conflitto
e dell'odio. Qui si concentra la discordia del mondo intero. Gerusalemme è
una città difficile, brusca, che ti sfida ma che può, se lo desidera,
conquistarti. In una delle "Conversazioni notturne a Gerusalemme" -
di cui parlo più avanti -, il rabbino Adin Steinzaltz ci ha detto che nessuno
sceglie Gerusalemme, ma che è essa a scegliere chi accogliere e chi respingere.
Bisogna restare qui per un po', sfidando il senso di estraneità, di solitudine,
di confusione per rendersi conto se, alla fine, questo luogo affascinante e
difficoltoso decide di accettarti, permettendoti di introdurti, sia pure
temporaneamente e quasi furtivamente, nella sua vicenda millenaria e
straordinaria. A Gerusalemme Dio tocca il mondo. Ed essa non si comprende senza
la sua vocazione di essere figura, anticipo della Gerusalemme celeste. «Essa è
il nostro futuro - scrive il cardinal Martini -, qui le grandi e piccole cose
assumono una dinamica divina. È un'immagine della fede, con tutte le
difficoltà, ma anche della speranza. Qui continuiamo a sentire che lavorare per
la pace è un processo doloroso. Ma anche che la speranza è più forte dei
fallimenti».
Ho accolto ciò che la città offre a chi desidera riprendere in mano la
Scrittura nei luoghi in cui è stata vissuta e scritta: i corsi e le escursioni
bibliche dello Studium Biblicum (molto suggestivi i tre giorni nel deserto del
Neghev); la partecipazione ai solenni momenti liturgici della quaresima e del
tempo pasquale; la frequentazione regolare della basilica del Santo sepolcro,
fino a farne un luogo familiare e affettivo. Mi piaceva andarvi soprattutto la
sera, quando la folla dei pellegrini è diradata e ci sono calma, silenzio e
suggestione dentro e fuori la storica basilica. Ispirato dalla lettura di
Etty Hillesum, Edith Stein e altre scrittrici ebree, ho preso parte ad un
seminario sulla Shoah, organizzato dal centro studi dello Yad Vashem, il museo
dell'Olocausto. Venti giorni per 140 ore di lezione, a cui hanno partecipato
quaranta studiosi da varie parti del mondo, impegnati come insegnanti,
educatori e direttori di musei, a promuovere la conoscenza della Shoah e di
altri genocidi. Ho potuto così immergermi in una specifica realtà del mondo
ebraico. È stata un'esperienza complessa e difficile: il contenuto
straziante delle lezioni; l'incontro con i superstiti; la visione di immagini
oltremodo dolorose; le drammatiche questioni esistenziali, di fede e di
teologia sollevate lasciavano spesso senza fiato me e i miei pur preparati
compagni di corso. Per me - prete cattolico - è stato umiliante, ma comunque
salutare, essere esposto in modo esplicito e senza alcuna riserva, alla
responsabilità di persone cristiane e di uomini di chiesa. Pregiudizi
largamente condivisi da cristiani per lunghi secoli hanno influito
sull'emergere dell'odio antigiudaico. Molto doloroso è stato visitare i
luoghi dove oggi si consuma il dramma del popolo palestinese, obbligato dal
"muro di divisione e annessione" ad una serie quotidiana e drammatica
di difficoltà e umiliazioni. Alcune suore bravissime ogni venerdì guidano, con
coraggio, la preghiera del rosario lungo la sezione di Betlemme di questo muro.
I volontari italiani dell'Operazione Colomba, che vivono in condizioni davvero
essenziali, nel villaggio di At Tuwani, sulle colline semidesertiche non
lontano da Hebron, sono impegnati quotidianamente a garantire a bambini e
pastori palestinesi la fruizione del diritto alla scuola e alla propria terra.
Proprio in questo remoto villaggio abbiamo conosciuto la speranza, generata
dalla fattiva sperimentazione della non violenza come scelta di vita e di
lotta.
Con Elisa e Lena, due giovani donne incontrate a Gerusalemme - la prima un
architetto impegnata con la Custodia di Terrasanta, la seconda una studentessa
in Sacra Scrittura -, abbiamo dato vita alle "Conversazioni notturne a
Gerusalemme". Chiaramente ispirata al cardinal Martini, questa iniziativa
ci ha permesso di incontrare persone autorevoli, di varia estrazione religiosa
e culturale, che ci hanno aperto le loro porte per comprendere più a fondo la
città. Preparare e vivere questi incontri, molto ben partecipati e sempre
veramente interessanti, è stato un grande dono, e l'opportunità di creare una bella
rete di rapporti, permettendomi di conoscere e dialogare con quella realtà.
Questa iniziativa continuerà, e ciò costituisce per me un motivo di
soddisfazione: un seme gettato potrà crescere e fare del bene ad altri. Ho
voluto lasciare Gerusalemme celebrando al mattino presto presso il Santo
sepolcro, con alcuni amici diventati compagni di strada. Lasciare Gerusalemme
dopo sei mesi indimenticabili era già abbastanza toccante per me. Per di più,
poche ore prima, avevo ricevuto la notizia della morte improvvisa di Roberto,
papà di due bambini, uno dei miei migliori amici. Un'amicizia lunga 41 anni,
iniziata nei campi del seminario di Treviso. Morte e vita, e il loro misterioso
e tragico intreccio, e tanti altri pensieri affollavano quella mattina la mia
mente. Qualche tempo prima avevo letto dell'emozione provata dal cardinal
Martini quando, per la prima volta, celebrò la messa al Santo sepolcro. Erano
le 4 del mattino di un giorno d'estate nel 1959. Egli raggiunse la minuscola
cappella dopo aver attraversato i vicoli deserti della città. In quel momento,
come per una folgorazione, gli parve di comprendere qualcosa del mistero della
risurrezione di Gesù. Una sensazione fortissima di ciò che significa vita, e
dell'anelito dell'umanità e delle religioni. Gli pareva che in quel luogo si
concentrassero ogni speranza, certezza e fiducia. La vita che non finisce mai,
scoppia, deborda, abbraccia l'universo. Dalla risurrezione - l'affermazione
della vita sulla morte - tutto parte, e tutto deve essere compreso e giudicato.
Incontrare Gerusalemme è vivere una nuova vita, un nuovo inizio, una grazia,
un'appartenenza che è dono dall'alto. MM