L'ANTICA
CAPITALE FU SCOPERTA NEL 1812
Petra i
200 anni della «città rosa»
Si faceva
chiamare cheikh Ibraihim, conosceva l’arabo, viveva tra Aleppo e
Damasco, spacciandosi per un mercante. Divenne musulmano dopo aver studiato il
Corano e l’Oriente islamico, ma il primo - e forse unico - amore della sua
breve carriera di esploratore (morì al Cairo a soli 33 anni di età) fu
l’Africa. Nel 1809 mise a punto una spedizione che avrebbe dovuto cercare le
sorgenti del fiume Niger, missione che fu lo scopo della sua vita. Non arrivò
mai alle fonti che sgorgano dai monti Loma, tra Guinea e Sierra Leone. Ma
girovagando per Siria, Giordania ed Egitto alla ricerca di carovane in viaggio
verso il cuore dell’Africa nera, incappò in alcune scoperte sensazionali.
Percorrendo la strada tra Damasco e Il Cairo, passando per la Giordania (la
cosiddetta "via dei re" che raggiunge Aqaba e poi, attraverso il
Sinai, la capitale egiziana), Johann Ludwig Burckhardt (questo il vero nome del
nostro esploratore), aveva sentito favoleggiare di una mitica città perduta
stretta tra le rocce di Wadi Musa, una località dall’indubbio sapore biblico. Si
era allora finto un pellegrino sulla strada della Mecca e aveva ottenuto di
essere accompagnato alla tomba che la tradizione identifica con quella del
profeta Aronne per sacrificare un capretto, alla sommità di una vetta chiamata
Jebel Haroun.
Era il 22 agosto 1812: insieme ad una guida locale cheikh Ibrahim potè
penetrare nel siq, il lungo canyon naturale che porta al cosiddetto
Tesoro del Faraone (la tomba nabatea immortalata nel celebre film Alla
ricerca dell’Arca perduta) e che costituisce l’ingresso dell’antica città
dei nabatei. Il naturalista e orientalista di origini svizzere (formatosi però
in Germania, Austria e Inghilterra, con una specializzazione a Cambridge),
probabilmente sopraffatto da ciò che vedevano i suoi occhi, non riuscì neppure a
fare qualche schizzo delle meraviglie della "città rosa", come
usavano i viaggiatori del tempo. Tuttavia diffuse la notizia tra gli studiosi e
gli europei presenti in Medio Oriente ed in Egitto e ne scrisse nel suo diario
di viaggi intitolato Travels in Syria and the Holy Land,
pubblicato dopo la sua morte.
L’esplorazione delle fonti del Niger restava però la sua priorità. Risalì
allora il Nilo, e tra le sabbie di Dongola scoprì quasi per caso il tempio di
Abu Simbel; viaggiò attraverso la Nubia, raggiunse Mecca e Medina, esplorò la
penisola del Sinai. Fiaccato da febbri e dissenteria, fu costretto a ritornare
al Cairo, dove morì nel 1817. Venne sepolto in un cimitero musulmano, con il
nome arabo che lo aveva accompagnato nelle sue peregrinazioni in Medio Oriente
e Nordafrica.
Già qualche anno dopo la sua morte, le prime missioni archeologiche iniziarono
a lavorare a Petra, portando alla luce i resti dell’epoca idumea, i tesori del
periodo nabateo, la città romana, le rovine dell’epoca bizantina, le fortificazioni
dell’epoca crociata.
«Ci sono pochi siti archeologici al mondo più famosi di Petra», spiega padre
Eugenio Alliata, archeologo dello Studium Biblicum Franciscanum di Gerusalemme.
«In seguito alla sua riscoperta, nel 1812, la fama di questa città perduta è
andata sempre più crescendo, e così anche la nostra conoscenza dei nabatei, la
popolazione che ha praticamente creato questa realtà». Venuti dal deserto nel
VI secolo a.C., i nabatei trasformarono la città, difesa da una chiostra di
montagne che la rendono inaccessibile, prima in un centro di transito per le
carovane impegnate a trasportare le spezie, le gemme e gli ori dell’Oriente
verso il Mediterraneo. Infine nella capitale di un regno che rivaleggiò per
cultura e ricchezze con le città ellenistiche (IV-I secolo a.C.) fino alla
sottomissione da parte dei romani sotto l’imperatore Traiano (106 d.C.).
Visitare oggi Petra, a 200 anni dalla sua restituzione al mondo, con i suoi
monumenti, i suoi palazzi, i suoi teatri, i suoi templi, significa spalancare
gli occhi su una civiltà che ha saputo trasformare il deserto in un luogo
vivibile, attraverso una sapiente gestione delle risorse idriche. Significa
accostarsi ad una religione pre-islamica (i nabatei erano politeisti)
affascinante e per molti versi misteriosa. Ma ci permette anche di accostarci
ad un contesto geografico dove sono continui i richiami biblici e dove si formò
una antica e fiorente comunità cristiana. «Giudicando dalle fonti storiche e
dai resti archeologici - prosegue padre Alliata - il cristianesimo dovette
introdursi abbastanza presto nella regione, forse già prima di Costantino (IV
secolo d.C.), continuare ancora per qualche tempo dopo l’arrivo dell’islam (634
d.C.), e riprendere durante l’epoca crociata (XII secolo) con la costruzione di
castelli sia in Petra medesima che nella vicina Shobak».
Tra i ritrovamenti più importanti in ambito cristiano, la scoperta, in una
stanzetta laterale della basilica, di 152 rotoletti di papiro: contratti
commerciali, moduli di tasse, promesse di matrimonio, dove i nomi delle persone
manifestano l’influenza della tradizione biblica sovrapposta all’eredità
nabatea.
«Petra - scrisse Lawrence d’Arabia un secolo dopo le imprese di Burckhardt - è
il più bel luogo della terra. Non per le sue rovine, ma per i colori delle sue
rocce, tutte rosse e nere con strisce verdi e azzurre, quasi dei piccoli
corrugamenti, e per le forme delle sue pietre e guglie, e per la sua fantastica
gola, in cui scorre l’acqua sorgiva e che è larga appena quanto basta per far passare
un cammello». Ancora oggi, per essendo un miracolo fragile (le minacce vengono
soprattutto dall’incedere del tempo e dai fenomeni dell’erosione), per le
decine di migliaia di viaggiatori che la affollano ogni anno la magia si
ripete.
Giuseppe
Caffulli
©
riproduzione riservata